Il presidente Tokajev ristabilisce i controlli sui prezzi del carburante e silura il primo ministro: misure che non sembrano bastare a calmare le dimostrazioni

Rovesciata a terra, la statua è spaccata in due. L’interno del monumento a Nursultan Nazarbajev, il “padre della nazione kazaka”, è vuoto: non appena l’immagine appare in rete, trasmessa dalla città di Taldykorgan, la gente si scatena. «Morte al dittatore, libertà ai kazaki!», gioisce il fronte della protesta. «Lo hanno abbattuto i fascisti!», si indignano i sostenitori dell’uomo che ha tenuto in mano il Kazakhstan per 30 anni. Dal 1990 – ancora in era sovietica – fino al 2019.

Passare tre anni fa la presidenza al delfino designato, Kassym-Jomart Tokajev, non è bastato a salvare Nazarbajev. Rimasto leader del partito dominante, Nur Otan (“Patria luminosa”), e capo del potente Consiglio di sicurezza nazionale, anche in questi ultimi anni era ritenuto sempre lui, 81enne, il potere dietro le quinte. Lui e la sua numerosa famiglia, che si era attribuita le ricchezze di un Paese graziato da ingenti risorse energetiche, la principale economia dell’Asia Centrale. Caratterizzata, però, da elevata corruzione e diseguaglianze sociali spaventose.

Hanno covato a lungo sotto la cenere, manifestandosi periodicamente in scioperi e rivendicazioni a livello locale. Ma il Kazakhstan veniva comunque considerato un Paese stabile, tenuto insieme dall’orgoglio dell’indipendenza acquisita nel 1991 e da un autoritarismo in cui Nazarbajev era riuscito a mantenere una relativa popolarità, seguendo lo stesso patto incarnato da Vladimir Putin nella vicina Russia: diritti e libertà personali sacrificati in cambio di stabilità, certezza di un reddito, standard di vita medi confortevoli.